Un viaggio gastronomico nella cucina napoletana del ‘700 fino ai giorni nostri
Il grande Eduardo de Filippo , in una vita dedicata al teatro, ha lasciato anche lui ampi spazi alla cucina , dedicando ad essa un poemetto gastronomico iniziato negli anni '60 di cui pochi ne sono a conoscenza. Aduardo descrive in versi i piatti della cucina popolare da lui più amati con toni rievocativi e saporiti, un de Filippo popolar gourmet di piatti poveri, quelli della nonna, semplici ma fatti con fantasia ed amore, basti ricordare il ragù di donna Rosa in “Sabato Domenica e Lunedì”. Il poemetto si intitola :” Si cucine cumme vogl’ì’”
“ Si cucine cumme vogl’ì’,
io te pavo cumme vuò tu
ma ,si pavo cumme vuò tu,
e nun magno cumme vogl ì,
io te pavo cumme vuò tu,
ma me nn’esco e nun torno cchiù.
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I capelli raccolti ed una camicetta bianca, Sophia Loren lavora l’impasto di una pizza fritta e spostandosi oltre il bancone grida gioiosa ai passanti ed alla gente del vicolo “ mangiate oggi e pagate tra otto giorni”, una delle scene più celebri di “L’oro di Napoli” film diretto da Vittorio de Sica e vergato dalla penna di Giuseppe Marotta. La famosa pizza fritta, ripiena di ricotta ,salame, cicoli e mozzarella, oppure nella versione economica ,semplice impasto senza ripieno, per quelli che proprio non potevano pagare. Antichissima pietanza della tradizione gastronomica partenopea, veniva associata all’espressione napoletana “ a ogge a otto” ,la mangi oggi e la paghi tra otto giorni ed era venduta fuori dai bassi .
“Sulle soglie delle case , grandi padelle erano poste su focolai improvvisati. Un garzone lavorava la pasta , un altro manipolava e ne faceva ciambelle che gettava nell’olio fumante. Un terzo, vicino alla padella,ritraeva con un piccolo spiedo le ciambelle man mano ch’erano cotte e con un altro spiedo le passava a un quarto che le offriva agli astanti . Vendono a tutto spiano e sono migliaia quelli che se ne vanno portandosi il necessario per il pranzo o per la cena avvolto in un brandello di carta”( tratto da “ Il Viaggio in Italia “ di Goethe.) .
Poeti come Salvatore Di Giacomo hanno immortalato piatti, invenzioni, protagonisti e carattere della cucina napoletana, la passione di Di Giacomo: la zuppa di soffritto fa parte del patrimonio delle memorie di ogni famiglia napoletana alta o bassa che sia , piatto che favorisce l’incontro dei gusti della borghesia e la tavola del mondo contadino. La zuppa di soffritto per 5 persone: kg 1,2 di coratella di maiale; gr 100 di conserva di peperoni rossi dolci; sugna,1 foglia di alloro , gr 100 di concentrato di pomodoro, 1 peperoncino piccante, mezzo bicchiere di vino rosso secco , un rametto di rosmarino , sale. Tagliate la coratella in piccoli pezzi , lavateli a fondo , scolateli , asciugateli e fateli rosolare nella sugna ,in un tegame largo, su fiamma vivace. Quando tutto sarà asciugato , bagnate con il vino e lasciate che evapori , a questo punto aggiungete il concentrato di pomodoro , la conserva di peperoni , l alloro, il rosmarino ed il peperoncino , diluite con un po’ d acqua e rimestate perché il condimento non si attacchi . Quando tutto risulterà convenientemente amalgamato , abbassate la fiamma , aggiungete altra acqua, lasciate cuocere a lungo a tegame scoperto. Il soffritto si mangia caldissimo distribuito su fette di pane e accompagnato da vino rosso robusto. Mi piace immaginare che la zuppa di soffritto e il ruoto di stocco aiutassero Di Giacomo ad entrare fino in fondo anche negli angoli più bui dell’animo della plebe napoletana, e che il concerto
degli odori e la perfezione dell’amalgama in cui si realizza il piatto di Partenope “alto e “basso” lo spingessero a trovare, anche nei personaggi e negli episodi estremi il segno di una profonda humanitas .
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Quell’humanitas che trova una delle massime espressioni nella famiglia unita , la famiglia che si raduna a tavola non per un gesto abituale ed obbligatorio ma molto di più, un momento nel quale la famiglia o gli amici si radunano vivendo un rapporto intimo intorno ad un tavolo, gustando del buon cibo , specialmente la domenica ,quando mi ricordo di mia nonna che si alzava di buon ora per preparare o´raù o “ a’ genuvesa”. A’ genuvesa, questo piatto tipico della cucina napoletana,piatto che preparo quando ho ospiti non napoletani per far assaggiare loro qualcosa di profondamente nostro,un piatto da consumare con le persone giuste. Se fu ideata dal cuoco soprannominato ò genovese nel XV secolo o inventata da marinai napoletani nel porto di Genova oppure introdotta a Napoli nel seicento da cuochi genovesi, non toglie a quella perfetta fusione di carne e cipolle la sua succulenza. ziti rigorosamente spezzati a mano sono l’ideale per questo piatto, tolleriamo le possibili varianti di mezzanelli , penne o rigatoni . il Cavalcanti nel suo ricettario “La cucina teorico pratica” la definisce “Raguetto” perché come tutti i ragù necessita di cuocere a fuoco lento per molte ore, più cuoce e più diventa scura e buona , deve diventare molto scura , le cipolle si devono consumare completamente , in modo da ricavarne un sugo denso e caramellato. Non un semplice sugo di carne , ma la massima espressione dell’amore . Superba e solitari ,sua maestà la genovese, così la definiva Jeanne Carola Francesconi nella sua prima edizione del 1965 di “La cucina napoletana”.Per 6 persone: 750 g di carne ( muscolo lacerto o girello), olio extravergine d oliva, un gambetto di sedano, una carota, un chilo e mezzo di cipolle ramate, una foglia d alloro, un bicchiere di vino rosso, pepe nero da macinare sale q.b. 750 g di ziti spezzati a mano, formaggio da grattugiare.
Un ingrediente fondamentale è il tempo, quindi armatevi di tanta pazienza : tritare finemente sedano e carota, tagliare finemente le cipolle , tagliare la carne a cubetti . in una pentola di coccio mettere l’olio , la carota ed il sedano e far soffriggere . aggiungere la carne e farla rosolare per qualche minuto ,sfumate con il vino aggiungete il pepe il sale le cipolle ed un mezzo bicchiere d acqua lasciar cuocere a fuoco lento per tre ore mescolando di tanto in tanto , a questo punto togliere la carne e metterla da parte , mentre la cottura delle cipolle continua nella pentola sempre con il coperchio fino a quando non si otterrà una crema densa e marroncina .
Profondi cambiamenti nella vita napoletana ed inevitabili ripercussioni anche nella cucina tradizionale ci sono stati nel secolo delle due guerre , durante la prima guerra mondiale la fame fu il nemico numero uno, ma l’uso di ingredienti di scarto come baccelli vuoti di fave e piselli fu necessario tra il 1943 ed il 1948 , periodo caratterizzato da un estrema rarefazione dei generi alimentari che rese introvabili latte, zucchero, frutta, verdura, grassi o perlomeno si trovavano solo al mercato clandestino a prezzi elevatissimi. Dopo gli anni sessanta il boom economico e lo sviluppo delle comunicazioni iniziò un processo di contaminazione con altre cucine italiane ed estere e mentre i cibi precotti facevano capolino nei supermercati , fino a “fortunatten a’ rrobba bella nzogna nzò” fortunato Bisaccia famoso tarallaro ha percorso le vie di tutta Napoli con il suo carretto dal dopoguerra fino alla fine degli anni ottanta ispirando
Pino Daniele che gli dedicò una canzone e Luciano de Crescenzo lo omaggiò dedicandogli la copertina del suo libro fotografico “La Napoli di Bellavista”
Jakin
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